4. Nessuno si aspetta l'Inquisizione spagnola

 

[L'impianto del processo 7 Aprile] ha riproposto nel nostro paese un modello di processo penale da Santa Inquisizione, non più come verifica empirica e induttiva di ipotesi accusatorie consistenti in fatti determinati, ma come esercitazione logica, petizione di principio o argomentazione circolare e tautologica su ipotesi politiche assiomaticamente assunte come vere: Negri è il capo e dunque non può non aver concorso nei reati commessi da Tizio e da Caio a lui legati e associati; Tizio è amico o contiguo di Negri, o contiguo del contiguo di Negri e quindi con lui concorre nei reati di associazione sovversiva e/o banda armata e/o insurrezione; Negri, Scalzone, Piperno, Ferrari Bravo non hanno lasciato dietro di sé prove, ma ciò conferma la loro qualità di capi occulti e clandestini e l'efficienza diabolica e addirittura 'il miracolo organizzativo' della loro associazione.
Luigi Ferrajoli, cit. in: Ivan Palermo, Condanna preventiva. Cronaca di un
clamoroso caso giudiziario che si vuole dimenticare: il 7 Aprile
,
Tullio Pironti Editore, Napoli 1982

Nei prossimi capitoli ci inoltreremo nel labirinto dell'inchiesta 7 Aprile e dei suoi prodromi, nelle costruzioni paranoiche del cosiddetto Teorema Calogero, nella giungla etica del "pentitismo" (elemento strutturale del Nuovo Diritto creato dall'emergenza)... Ma prima è necessario tornare indietro di qualche secolo.
Si sono più volte messi in evidenza allarmanti parallelismi tra il moderno metodo inquisitorio (ulteriormente imbarbarito a colpi di leggi speciali) e le antiche cacce alla strega o all'eretico. I metodi d'indagine e d'interrogatorio della Magistratura inquirente, il carcere preventivo usato come strumento di pressione fisica e psicologica sull'indagato, la completa inversione dell'onere della prova, il "pentitismo" come pietra angolare delle istruttorie e del dibattimento, il principio secondo cui o si è delatori o si è fiancheggiatori (fautores)... E' tutto molto simile a quanto avveniva nei processi dell'Inquisizione spagnola o di quella romana (il Sant'Uffizio), o durante l'emergenza-untori del 1630 a Milano (eventi raccontati da Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura e da Manzoni nella Storia della colonna infame), o ancora durante la caccia alle streghe del 1692 a Salem (storia narrata da Arthur Miller nel suo imprescindibile dramma The Crucible).
Paradossalmente, negli stessi anni in cui veniva imposta la legislazione d'emergenza, si stava lavorando - invero, con ritmo brachicardico - alla riforma del codice di procedura penale (che sarebbe entrato in vigore solo nel 1989, cfr. cap.10), ovvero al passaggio dal sistema "inquisitorio" del sopravvissuto ordinamento fascista a quello "accusatorio" d'ispirazione anglosassone.
Per far capire la distinzione tra i due sistemi, riccorreremo a un curioso ipse dixit; così PierLuigi Vigna, ex-procuratore dela repubblica a Firenze, attuale superprocuratore antimafia:

Ovvia l'idea e perverso lo sviluppo: colpevole o no, l'inquisito sa cose importanti e se ogni sua memoria trasparisse, il caso sarebbe infallibilmente risolto. Bisogna che l'analista gli entri in testa, da ogni possibile spiraglio. Questa semeiotica non ammette l'irrilevante: sfumature somatiche o fonetiche finiscono a verbale; "respondit, flectens caput et submissa voce", "non so niente", annota il verbalizzante. Conseguenziale a tale impostazione è il ricorso alle "parole coatte", quelle estorte attraverso la tortura - considerata un mezzo classico per la scoperta della verità, riposta all'interno dell'accusato - e che, acquisita all'arsenale penalistico con Ulpiano, vi dura cinquecento anni. E d'altra parte, si teorizza, resistendo ai tormenti l'inquisito innocente purga gli indizi.
Muta la prospettiva con l'accusatorio: qui la ricerca della verità (il noumeno, forse) è affidata alla dialettica, alla posizione paritaria dell'accusa e della difesa che consente di esprimere e di prospettare al giudice - terzo e comunque non impegnato nella ricerca - i vari volti che la storia del fatto criminoso posto al suo giudizio offre. Ed il giudizio dovrà fondarsi non su quello che l'accusatore ha solitariamente raccolto, ma su quanto, davanti al giudice, sarà dialetticamente emerso dall'esame - definito, appunto, incrociato - delle parti e dei testimoni (Introduzione a: Giorgio Saviane, L'inquisito, Tascabili economici Newton, 1994).

L'emergenza serve anche a vanificare tale riforma, perché tale progresso avvenga solo su un piano di simulazione, mentre il potere giudiziario esperisce e a sua volta impone una regressione sostanzialistica alle tenebre del più puro sistema inquisitorio. L'emergenza è una vera e propria controriforma preventiva.
Per capire molti riferimenti di cui abbondano i capitoli successivi, è necessario descrivere con esempi concreti lo sviluppo e l'applicazione nei secoli del sistema inquisitorio, rinvenendone la matrice in quel "modello cattolico" che nel XVI e nel XVII secolo per primo fece della "cultura del sospetto" un vero e proprio supporto giuridico, caratteristica "estesa, poi, dal potere laico, che se ne è appropriato, a tutte le forme di "devianza" politica che contrastino con la linea "totalizzante" (ortodossa) imposta da chi sta a capo delle istituzioni" (Mereu, op. cit., p.18). Non si tratta certo di una breve storia dell'Inquisizione (ve ne sono già troppe): ci limiteremo a descrivere alcune procedure, per evidenziare le somiglianze con quanto succede nell'Italia dell'emergenza da vent'anni a questa parte. [1]
Alcune osservazioni preliminari: prima dell'imporsi del "metodo cattolico" il diritto romano, codificato nel cosiddetto Digesto, si basava sul sistema accusatorio ("per accusationem"): terzietà del giudice, parità tra le parti, insussistenza dei meri "indizi" (a prova si opponeva prova), "poena calumniae" (cioè legge del taglione) per l'accusator se l'accusa risultava falsa. Nel Digesto si legge: "cogitationis poenam nemo patitur", nessuno può essere punito per il [suo] pensiero. Un'altra prescrizione è "in dubio pro reo": meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente. Ancora: non si condanna un assente (contumace). Neanche nelle Sacre Scritture vi è traccia di sistema inquisitorio. Il "codice di procedura" prescritto da Dio tramite Mosè ha un'impostazione squisitamente dibattimentale, simile a quella romanistica per accusationem. Vedasi Deuteronomio 19, 15-19:

Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa, e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni. Qualora un testimonio iniquo si alzi contro qualcuno per accusarlo di ribellione, i due uomini fra i quali ha luogo la causa compariranno davanti al Signore, davanti ai sacerdoti e ai giudici in carica in quei giorni. I giudici indagheranno con diligenza e, se quel testimonio risulta falso perché ha deposto il falso contro il suo fratello, farete a lui quello che egli aveva pensato di fare al suo fratello. Così estirperai il male di mezzo a te.

Tali caratteristiche - a parte ovviamente la legge del taglione - sono sopravvissute per secoli nel diritto anglosassone, unica énclave giuridica parzialmente immune al contagio del "modello cattolico" continentale.

L'Inquisizione viene istituita nel 1234 da una bolla di Gregorio IX, allo scopo di perseguitare gli eretici e impedire il loro proselitismo nelle campagne. Il "mandato speciale" viene affidato principalmente all'ordine dei domenicani (che presto si meritano il nomignolo di "domini canes", cani del signore), a cui vengono assegnati privilegi di casta - come quello di assolversi a vicenda - per trasformarli in un vero e proprio corpo separato, antesignano degli odierni servizi segreti.

Primo "strappo" col diritto romano: l'Inquisizione procede anche d'ufficio, "pro bono fidei" (per il bene della fede), sulla base della "praesumptio culpae". Non c'è bisogno di una formale accusatio, a trascinare una persona di fronte al tribunale speciale sono sufficienti chiacchiere e dicerie. Si tratta della diffamatio: "dicesi alcuno diffamato d'heresia quando è fama e voce pubblica communemente appresso a tutti (o la maggior parte della città, vicinato o villa) ch'egli abbia predicata o difesa l'heresia, o in altro modo aderito" (E. Masini, in: Mereu, op. cit., p.140).
Al XIII e al XIV secolo risalgono i vari manuali d'inquisizione, che torneranno prepotentemente in voga con la controriforma o "riforma cattolica" di Paolo III, a partire dal fatidico 1542, anno dell'indizione del Concilio di Trento. Quella rappresentata dai protestanti è la prima emergenza moderna. La sfilza di bolle papali emanate a partire dal 1542 somiglia molto al "pacchetto" di leggi speciali esaminato nei capitoli scorsi. Ricordiamo le più significative, a cominciare dalle tre emanate da Paolo III nell'anno fatidico:
- la Licet ab initio recupera tutta la legislazione medievale, ma centralizza le funzioni dell'Inquisizione creando il Sant'Uffizio. Lo ius inquirendi, procedendi et iudicandi non appartiene più ai vescovi bensì agli inquisitori generali nominati dal papa.
- la In apostolici culminis estende a tutti il "sospetto", con l'eccezione dei vescovi (undici anni dopo, la Romanus pontifex di Paolo IV includerà anche loro).
- la Cupientes iudaeos disciplina tempi e modi della conversione forzata degli ebrei.
A seguire, le bolle emanate da Giulio III, che pure conserva fama di papa "mite":
- la Cum meditatio cordis vieta il possesso di libri luterani o comunque eretici, o sospetti d'eresia.
- la Illius qui, del 1550, disciplina il pentimento e l'abiura, e fissa pene pesantissime per gli impenitenti (nel gergo dell'anti-terrorismo, gli "irriducibili").
- la Licet a diversis prevede la scomunica per chiunque interferisca nel lavoro degli inquisitori.
- la In multis depravatis, del 1554, prevede la perforazione della lingua, la fustigazione e i lavori forzati per i bestemmiatori plebei; una multa, la perdita di titoli e benefici, il divieto di fare testamento e un bando di tre anni dall'urbe per i nobili.

Il "modello cattolico", esclusa l'Inghilterra della Petition of Right (1628), viene imitato in tutta Europa, anche dai protestanti. Vediamo nei dettagli che procedure ne derivano.
La Chiesa prescrive la delazione anonima come dovere e virtù civica, pena l'essere considerati complici ("Non revelando dicitur haereticorum fautor"):

E siccome, se in qualche persona per disaventura si scoprisse la peste, ogn'uno correria a farlo sapere a chi bisognasse, acciò così fatto male contagioso non andasse serpendo negli altri, così sempre, ch'ei si sa o si sospetta, che alcuno sia heretico o sospetto d'heresia, accioché questa maledetta peste non si diffonda negli altri, si dee senza alcuna precedente corretione, sotto precetto obligante a peccato mortale, denontiar quanto prima all'Inquisitore, ovvero all'ordinario del luogo, Né può chiunque sia tralasciare di ciò eseguire infra lo spatio di dodici giorni, termine perentoriamente assegnato a dover fare simile denontia, anco sotto pena di scomunica latae sententiae di incorrersi ipso facto, e altre pene. (Masini, in: Mereu, op. cit., p.196)

La forma processuale "per denuntiationem" sostituisce del tutto quella "per accusationem". Non solo non c'è la "poena calumniae", ma il delatore è coperto dal segreto. All'inquisito non si comunica mai la fonte di "prova":

Con decreto della Congregazione della Santa Inquisizione (in data 4 maggio 1566) gli illustrissimi cardinali inquisitori generali, riuniti in congregazione ordinaria, ribadiscono che all'imputato deve essere detta solo la sostanza delle deposizioni dei testimoni a carico, senza il nome degli accusatori ("absque nominum publicatione") e senza che ci sia la possibilità di individuarli per qualche particolare circostanza, o dalla natura delle deposizioni fatte. Abbiamo così la mistificazione processuale. Con questo sistema l'imputato non solo non deve conoscere il nome dell'accusatore, ma anche l'accusa non dovrà essere precisa e circostanziata, ma sfumata e mascherata. Le ragioni giustificanti queste disposizioni, i "maestri" le trovano nel grave pericolo nel quale sarebbe incorso il denunziante se il suo nome fosse stato reso pubblico. (Ibidem, pp.204-205).

Tale metodo passa per osmosi nel giudiziario "civile", si pensi alla caccia ai presunti untori milanesi:

Allora i giudici osarono rinfacciarli che questo era contrario non solo al suo esame, ma alla deposizione d'altri testimonj. Il povero Mora non sapeva ciò che quei testimonj avessero deposto, e non poté quindi confondere coloro o almeno dire quelle parole che confondono chi non è affatto perduto. Ma il lettore sa che cosa quei testimonj avessero deposto. Quei magistrati mentirono dunque avvertitamente allo sventurato che stava nella forza loro. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, "l'Unità", Roma 1993, p.18).

Anziché dei fatti precisi, si contestano all'indagato, anti-romanisticamente, le sue idee, i suoi più reconditi desideri, la sua stessa personalità. I fatti esterni non hanno valore, se non in quanto indicanti la credenza di colui che li ha commessi (il "fine ultimo", la "fattispecie terroristica"). L'interrogato è dannato da qualunque cosa dica o non dica, qualunque comportamento scelga di assumere. L'origine della preasumptio culpae risale ai processi per stregoneria:

Il giudice che istruisce un processo di stregoneria non considera il suo interlocutore come un imputato ordinario. Egli è costantemente ossessionato dal timore di trovarsi ingannato dalle menzogne diaboliche, e diffida di tutto ciò che egli si dice in risposta alle sue domande. Può arrivare a diffidare persino della ricerca delle prove obiettive [...] Quando lo stregone rifiuta di rispondere negando in blocco tutte le imputazioni, ciò significa che esso manifesta l'irrigidimento suggerito da Satana, il patto di silenzio che questo raccomanda ai suoi fedeli per tenere in scacco i suoi giustizieri [...] Quando, invece, si scioglie in lamenti amari sulle proprie sventure e sulla malvagità dei vicini, tradisce l'angoscia provocata dai misfatti commessi. (R. Mandrou, cit. in: Pasquino Crupi, Processo a mezzo stampa: il 7 aprile, COM2, Venezia 1982, p.35)

Roma, 20/4/1979: durante un interrogatorio, il Pm Guasco dirà a Toni Negri: "Quando lei parla con questo tono concitato, mi ricorda il brigatista della telefonata alla signora Moro" (Ibidem, p.27). Nil novi...
Le vicende della caccia all'untore del 1630 sono prodighe di tali esempi. Quello che segue è uno stralcio dell'interrogatorio del maestro d'armi Carlo Vedano, 8 settembre 1630, riportato dal Verri:

Ei dicto che dica la causa perché interrogato se aveva mangiato in casa di Gerolamo cuoco che fa l'osteria là a San Sisto di compagnia del Baruello non contento di dire una volta di no rispose Signor no Sig.r no Sig.r no.
Resp. Perché non è la verità.
Ei dicto che per negare una cosa basta dire una volta di no e che quel replicare Signor no Signor no Signor no mostra il calore con che lo nega e che per maggior causa lo neghi che perché non sia vero.
Resp. Perché non vi sono stato
.*
[...] Ei dicto perché questa mattina interrogato se si è risoluto a dire la verità meglio di quel che fece jeri sera non contento di rispondere che jeri sera disse la verità ha prorotto in queste parole: perché io ne sono innocente di quella cosa che mi imputano, le quali parole oltre che sono fuori di proposito non essendo esso mai stato interrogato sopra imputazione che gli sia stata data, mostrano ancora che esso sappia d'essere imputato di qualche cosa e pure interrogato che imputazione sia questa ha detto di non saperlo, onde se gli dice che, oltre che si vuol sapere da lui perché ha detto quella risposta fuori di proposito, si vuol anche sapere che imputazione è quella che gli vien data.**
Resp. Io ho detto così perché non ho fallato.
[...] Ei dicto che sopra tutte le cose che è stato interrogato adesso si vuole più opportuna risposta altrimenti si verrà ai Tormenti per averla.
Resp. Torno a dire che non ho fallato ed ho tanta fede nella Vergine Santissima che mi ajuterà perché non ho fallato non ho fallato.***
Note del Verri: (*) Poteva anche dire perché sono vivace, il mestiere d'un maestro di spada non è di naturale flemmatico. Nell'esame un constituto non può aver tranquillità molta. (**) Era pubblica la diceria del S. Cav.e Padilla. Il Baruello gli aveva sostenuto il suo romanzo in faccia che lo faceva mediatorie del trattato dell'unto. Era chiara la imputazione. (***) Il suo modo di esprimersi era come si vede di ripetere le sue frasi come qui non ho fallato non ho fallato, e sopra Signor no Signor no ecc. (Pietro Verri, Osservazioni sulla tortura, BUR Rizzoli, 1988 pp.90-92)

L'inquisito non conosce la propria imputazione, né l'interrogante deve comunicargliela. L'inquisito deve indovinarla, facendo l'esame di coscienza e confessando. Osserva Italo Mereu:

La confessione, in questo senso, è una scoperta del metodo inquisitorio; ed è l'adattamento giuridico dell'omonimo sacramento da cui è mutuata... Con questo di diverso: mentre nella confessione è il penitente che sa e che spontaneamente si presenta e si confessa dinanzi al sacerdote... qui invece è l'inquisitore che sa, o dice di sapere (o presume di conoscere)... (Mereu, op. cit., p.206)

Se l'imputato non confessa, ci sono la carcerazione preventiva e "i tormenti" (eufemisticamente definiti "rigorosa disamina": qui è in azione lo stesso tartufismo di espressioni come "custodia cautelare"). Parte l'estenuante trafila che ha il fine di piegare l'inquisito nel fisico e nel morale: i rinvii indefiniti, il prolungamento della fase istruttoria a scapito di quella dibattimentale, il carcere come tortura psicologica:

Nei calcoli dell'Inquisizione, il tempo contava poco o nulla, e si poteva sempre aver pazienza e aspettare. Probabilmente, nello spazio di poche settimane o di pochi mesi, sarebbe arrivato finalmente il momento in cui il prigioniero avrebbe chiesto di esser nuovamente ascoltato. Se non si decideva a farne richiesta, si potevano lasciar passare sei mesi prima di interrogarlo nuovamente. Se rimaneva ostinato, sarebbe stato nuovamente rinviato. E così i mesi davano luogo agli anni e gli anni si mutavano in decenni [...] Capitava spesso che tra il primo interrogatorio dell'accusato e la sua condanna finale, passassero tre, cinque, dieci anni. (H. C. Lea, in: Crupi, op. cit., p. 151)

L'imputato non ha nessun diritto. Per usare la formula di Bonifacio VIII: il procedimento deve svolgersi "sine strepitu advocatorum et forma iudicii", cioè: senza vociare d'avvocati né formalismi.
Per l'avvocato difensore vige il divieto di assistere gli eretici o i sospettati d'eresia. Se trasgredisce, viene immediatamente considerato un fautor (nel gergo proprio dell'emergenza anni Settanta: "fiancheggiatore") e viene, diremmo oggi, "radiato dall'albo". E allora qual è il suo compito nei processi dell'Inquisizione? Semplice: durante le torture, deve convincere l'imputato a pentirsi e confessare. Come vedremo, dai difensori dei "terroristi" lo stato si attenderà esattamente la stessa condotta.
Nel processo inquisitoriale, i vari tipi di torture sono soggetti a un minuzioso regolamento, istituzionalizzati e "mitigati" da quello che Italo Mereu chiama icasticamente il "legalismo da camere a gas". Sotto lo stato democratico c'è stato un significativo cambiamento: in ossequio ai "diritti dell'uomo", la tortura è diventata formalmente illegale, ufficiosa, imprevedibile... ma vi si ricorre spessissimo, e per le stesse ragioni di sempre. Omaggiamo i lettori di un florilegio:

In certi paesi vicini alla Francia, in particolare in Germania Occidentale, in Italia, Gran Bretagna, Spagna e Svizzera, il diritto alla difesa dei detenuti politici viene limitato in modo intollerabile. Quando i prigionieri rifiutano di abiurare alle loro convinzioni e di trasformarsi in accusatori e in strumenti della propaganda dello Stato, vengono sottoposti a condizioni di detenzione che contrastano con gli accordi internazionali sul divieto della tortura e di condizioni inumane di trattamento. La stessa tortura fisica si estende sempre più in Europa Occidentale, non solo in Spagna e in Turchia. In Italia, dove dopo il rapimento del generale USA-NATO Dozier sono intervenuti consiglieri della CIA, i prigionieri politici sono stati sistematicamente torturati.
Tutti questi metodi fanno parte di un programma di controrivoluzione preventiva che ha la pretesa di imporsi in tutta l'Europa Occidentale, e che sotto il precedente governo francese veniva designato come 'spazio giuridico europeo'.
Di fronte a questo programma di repressione internazionale, non sono rispettati i più elementari diritti alla difesa, e la incolumità dei prigionieri è messa sotto i piedi. (Comunicato stampa dell'Associazione Internazionale Difensori Detenuti Politici, Parigi, 5/4/1982)

Sono stato torturato nella caserma del Secondo Celere di Padova dal 28 gennaio al 2 febbraio [1982]. Legato sul tavolo, la testa penzoloni, mi sono stati fatti ingurgitare litri di acqua e sale. Mi hanno picchiato rompendomi delle costole e provocandomi una lesione interna all'orecchio. Mi hanno fatto subire delle scariche elettriche ai testicoli e bruciato l'inguine. Mi hanno tagliuzzato cosce e polpacci cospargendoci poi sopra del sale. Una notte mi hanno portato in campagna, bendato, mi hanno addossato ad un albero puntandomi le pistole in faccia e facendo scattare i grilletti. (Cesare di Lenardo, brigatista arrestato a Padova durante la liberazione del gen. Dozier, cit. in "Il Bollettino del Coordinamento Comitati contro la Repressione" n.5, Milano, maggio 1982)

Poiché non rispondevo mi fecero aprire le gambe, mi alzarono la gonna, mi tolsero le mutande e iniziarono a strapparmi alcuni peli del pube. Provai del dolore e gridai. Mi decisi a dare alcune risposte. Poi entrarono i 'buoni'. Mentre erano da me ho sentito gridare Di Lenardo. Dopo un po' tornarono i cattivi, mi abbassarono nuovamente collant e mutande, mi strapparono altri peli, poi mi fecero alzare la maglietta e mi tirarono i capezzoli. Poi mi fecero alzare e mi fecero appoggiare sul tavolo dicendomi che mi avrebbero violentata infilandomi nella vagina una gamba della sedia. Allora mi decisi a parlare del sequestro Dozier. Quello più grande che mi interrogava ogni tanto mi chiedeva se mi dichiaravo prigioniera politica e ogni volta che rispondevo di sì mi dava un ceffone. (Emanuela Frascella, brigatista arrestata nelle medesime circostanze, cit. in: Giorgio Bocca, op. cit., pp.280-281)

Il caso delle torture compiute dai NOCS diventa un caso politico: il Partito Socialdemocratico, sempre pronto alle più basse demagogie, difende a spada tratta i poliziotti e fa eleggere il commissario Genova nelle sue liste. Il ministro degli interni Rognoni, rispondendo a una interrogazione parlamentare, nega la tortura e dice che forse ci sono stati dei maltrattamenti rimasti però isolati. Gli elogi del presidente Reagan per la liberazione di Dozier trovano ampio risalto nella televisione di stato che ignora le voci sulle torture. (Ibidem, p.282)

È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. (Costituzione della Repubblica Italiana, art.13, comma IV)

Scopo dei "tormenti" e dell'intero procedimento giudiziario è il pentimento, l'abiura. Anche chi non ha fallato deve abiurare per poter essere lasciato in pace, espiare il fatto di aver ingenerato sospetti nel suo prossimo e negli inquirenti, mettersi alla berlina dei media e ribadire la propria volontà di tornare nel grembo della Chiesa (o dello Stato democratico). Va fatta notare l'importanza dell'amplificazione "mediatica" dell'abiuratio:

...tanto la sentenza quanto l'atto di abiura dovevano essere scritti in lingua volgare, così da risultare comprensibile da quanti (dotti e ignoranti) avessero assistito all'atto di abiura fatto in pubblico [...] Tutto ciò rispondeva in pieno al fine che la Chiesa si proponeva di raggiungere... Mascherato con una tunica lunga da penitente (il cosiddetto "San Benito"), circondato dalle guardie, posto in bella vista su una specie di palco, fargli ammettere, alla presenza di tutti i fedeli, che è un imbecille, un "minus habens", che ha sbagliato e che si augura di non più sbagliare, è un tipo di berlina dissacrante ed umiliante, adatta per gli intellettuali (Mereu, op. cit., p.303).

Oltre all'abiuratio, esiste la purgatio: non si tratta di una condanna, ma di una non-assoluzione, che comporta una forma di penitenza per il non-assolto, comunque reo di qualcosa. C'è un ovvio parallelismo con la "insufficienza di prove" del vecchio codice di procedura penale: la mancanza di prove non dissipa comunque il sospetto. È l'apice della praesumptio culpae.
Anche la condanna del "contumace" è un'invenzione dell'Inquisizione su cui le "leggi speciali" degli anni Settanta (in particolare, la più volte citata n.534 dell'8/8/77) eseguiranno veri e propri ricami barocchi.
Per concludere, e finalmente iniziare: quando, a proposito dei magistrati che in Italia gestiscono l'emergenza infinita, si parla di "nuova inquisizione", non s'intende usare un'allegoria: purtroppo si è fuori dal reame delle figure retoriche, nel dominio dei "letteralmente". Similitudini e continuità sono ben evidenti. [2].

 

NOTE

1. Negli ultimi anni alcuni pubblicisti cattolici e di destra hanno cercato di giustificare, riabilitare, rivalutare l'Inquisizione, di descriverla addirittura come un'istituzione "mite", "tollerante", "trasparente", "garantista". Scopo di costoro è denunciare due secoli di complotto illuminista e anticlericale, i cui protagonisti avrebbero tramandato una calunniosa "leggenda nera" ai danni dei poveri Torquemada e Carafa. Inutile dire che consideriamo puerili e ridicole le loro argomentazioni. In Italia i più popolari "rivalutatori" sono Rino Cammilleri (curatore della rubrica "Il santo del giorno" su "Il Giornale"!) e Franco Cardini (docente di storia medievale, già elogiatore delle Crociate). La loro strategia argomentativa può essere ricondotta a tre momenti-chiave, corrispondenti agli stratagemmi 1, 2 e 19 de L' Arte di ottenere ragione di Schopenauer (Adelphi, Milano 1991): "... L'ampliamento. Portare l'affermazione dell'avversario al di fuori dei suoi limiti naturali, interpretarla nella maniera più generale possibile, prenderla nel senso più ampio possibile ed esagerarla; restringere invece la propria affermazione nel senso più circoscritto possibile e nei limiti più ristretti: perché quanto più un'affermazione diventa generale, tanto più essa presta il fianco ad attacchi [...]" (p.29); "...Usare l'omonimia per estendere l'affermazione presentata anche a ciò che, al di là del nome uguale, poco o nulla ha in comune con la cosa in questione; poi darne una confutazione lampante, e così fingere di avere confutato l'affermazione" (pp.31-32); "...Se l'avversario ci sollecita esplicitamente a esibire qualcosa contro un determinato punto della sua affermazione, ma noi non abbiamo nulla di adatto, allora dobbiamo svolgere la cosa in maniera assai generale e poi parlare contro tali generalità. Ci viene chiesto di dire perché una determinata ipotesi fisica non è credibile: allora parliamo della illusorietà del sapere umano e ne diamo ogni sorta di esempi" (pp.44-45).
Esempio: è indubbio che l'Inquisizione fu intollerante e perseguitò la libertà di pensiero. A chi, come lo storico Adriano Prosperi, non rinuncia a ribadirlo, Cammilleri risponde che "tolleranza e libertà del pensiero sono concetti solo recentemente (e non ancora completamente) acquisiti dalla coscienza collettiva" (Storia dell'inquisizione, Newton Compton, Roma 1997, p.11). In questa frase l'esperto di santi ricorre, con notevole rozzezza, a tutti e tre gli stratagemmi:
N. 1. Cammilleri esagera le affermazioni degli avversari e ne fa caricatura, quasi si volesse accusare Paolo III di aver violato la Costituzione del 1948. Ma la "libertà del pensiero" può essere intesa in senso giuspositivistico, giusnaturalistico o addirittura anti-giuridico. L'essere umano ha cominciato ad aver cara la propria libertà (compresa quella del pensiero) molto prima che essa fosse considerata un "diritto". Ci si è ribellati agli abusi del potere anche ignorando lo ius resistentiae. Il fatto che ai tempi di Crasso e Pompeo la schiavitù fosse norma ci impedisce forse di dare ragione a Spartaco? Chiunque preferirebbe essere "tollerato" dall'autorità anziché imprigionato e torturato, e l'operare processuale dell'Inquisizione era violento e iniquo anche in una società non ancora "rischiarata" dai diritti dell'uomo. Detto questo, va aggiunto che, prima dell'imporsi del "modello cattolico", il diritto d'impronta romanistica affermava: "cogitationis poenam nemo patitur", cioè: nessuno deve essere condannato per le proprie opinioni.
N. 2. si parla dell'Inquisizione medievale o di quella romana? Quest'ultima durò dalla Controriforma al XIX° Secolo, in piena modernità, proprio i tre secoli cruciali in cui si affermarono storicamente l'illuminismo, il liberalismo, i diritti dell'uomo, l'egualitarismo socialista... Usando il termine passe-partout "Inquisizione", e fingendo di storicizzare, Cammilleri in realtà induce all'equivoco e de-storicizza.
N. 19. Cammilleri scrive che il concetto di "libertà di pensiero" non è completamente riconosciuto nemmeno oggi. È vero, ma lui lo scrive poche righe dopo aver definito il Sant'Uffizio "un antesignano del moderno garantismo"! Forse si è accorto di averla sparata troppo grossa, meglio prevenire domande scomode "parlando contro la generalità", sminuendo il "garantismo" di oggi al fine di rendere meno improponibile e strampalato il raffronto con... quello di ieri.
Quanto detto vale per buona parte delle affermazioni di Cammilleri.

2. Buon ultimo, lo ha capito anche Carlo Ginzburg, curiosamente "distratto" fino al 1990, anno del processo di primo grado contro il suo amico Adriano Sofri et alii. Ginzburg è uno storico brillante, e si è occupato soprattutto del rapporto tra potere e culture popolari nell'età della controriforma, quindi di Inquisizione. Per aiutare l'amico, vittima di una gravissima montatura, Ginzburg ha scritto Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri (Einaudi, Torino 1991), pamphlet basato sulla sensazione di "leggero spaesamento" (p.3) provata nel leggere gli atti del processo. Tali atti hanno, "contro ogni aspettativa, una fisionomia curiosamente familiare" (Ibidem), quella dei processi inquisitoriali. Contro ogni aspettativa?
Le conclusioni del libro sono ancor più rivelatrici della "distrazione" dell'autore e del ritardo con cui si è accostato all'argomento: dopo aver ricordato che i giuristi totalitari e fascisti contrapponevano al principio garantista "in dubio pro reo" quello "in dubio pro republica" (basato sulla presunzione di colpevolezza in nome della ragion di Stato), Ginzburg commenta: "Questi princìpi non hanno prevalso. La ragion di Stato non entra (non dovrebbe entrare) nelle aule dei tribunali del nostro paese. La sentenza di primo grado emessa dalla Corte d'Assise di Milano è un errore giudiziario che si può, che si deve correggere" (Ibidem, p.111). Commento di Primo Moroni: "...la condanna subita da Sofri, Bompressi e Pietrostefani nel processo Calabresi [è] un'aberrazione giuridica come del resto erano e restano aberrazioni giuridiche moltissime condanne nei processi politici degli anni '80. In questo senso è legittimo chiedersi dove fosse il buon Carlo Ginzburg al tempo di quei processi [...] Forse che lo scandalo è giuridicamente intollerabile solo quando viene colpito un'intellettuale 'amico' ed è invece poco stimolante quando vengono fatte a pezzi le vite di alcune centinaia di operai...?" (Moroni, prefazione a: Lucio Yassa, Difendersi dalla repressione, Cooperativa editoriale zero, Milano 1992, p.VII). Commento di Cesare Bermani: "...c'è veramente da restare sbalorditi. Ma s'è scordato Ginzburg quante volte la ragion di Stato sia entrata in questi anni in tribunale? Ha dimenticato il "7 aprile", per esempio, un processo anch'esso basato su una confessione, quella di Fioroni, tutta impostata su "sentiti dire"? "In dubio pro republica" ha dominato incontrastato in molti processi. Eppure siamo una democrazia e non uno Stato totalitario. Già, ma quale continuità fra questo Stato e quello del periodo fascista!" (Bermani, intervento in: Centro di iniziativa Luca Rossi, a cura di, Gladio, stragi, riforme istituzionali, autoprod., Milano 1991).

 

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