4. Arma impropria

 

"E allora, chi sei? Come ti chiami?"
"No!... Tra noi due niente nomi, né generalità né stato civile."
"...E vabbe', ma in qualche modo ci dobbiamo chiamare..."
"No. Ma...se proprio mi vuoi chiamare in qualche modo chiamami...chiamami..."
"Come?"
"Prrrt! [pernacchia breve]"
"Come???"
"Prrrt!"
"...E io?"
"Tu...Prrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrttt!!!"
"Minchia!"

Nando Cicero, Ultimo tango a Zagarolo (1973)

 

Lo scopo di questo capitolo è quello di rendervi evidente l'assoluta necessità di abbandonare il vostro nome proprio, a meno di non voler rimanere per sempre legati alle strategie dissuasive dei codici di dominio imperanti. Fare ciò con tutte le armi messe a disposizione della retorica, poiché reputo cruciale il definitivo superamento di ogni "identità ascritta"al fine di un umano e completo dispiegarsi delle singolarità. Non si tratta di una proposta sovversiva, ma di una necessità storica, a meno di non voler restare infangati nella logica postmoderna di fine della storia stessa (dello sciopero degli eventi). Ma se la proposta non è sovversiva, é probabile invece che le pratiche che mirano al suo raggiungimento debbano esserlo. Se ci potremo dare o meno la possibilità di avere ancora storia dipenderà inanzitutto dal superamento della logica identitaria del nome proprio. È finita l'epoca della storia con i nomi dei regnanti e siam giunti nell'epoca della storia simulacrale con i nomi delle videostar, che in un eterno presente non rimandano altro che a se stessi: un altro salto ci resta da compiere, quello della storia senza alcun nome proprio, una storia di persone, non di nomi, di umanità, non di uomini.

È vero signori, io sono il Provocatore Professionista noto a Chicago col nome di Lo Sperone Nascosto, a Fallon col nome di Frusta Invisibile, in molte città con molti altri nomi Transmaniacon - John Shirley (1979 - Urania n.834)

In un'America trasformata dalla barriera che la separa dal resto del mondo, un'America di città-stato indipendenti, Ben Rackey, protagonista del romanzo, naviga come dentro una rete telematica assumendo identità diverse nei differenti nodi. È d'altronde la situazione dell'individuo contemporaneo quella di insufficienza di una singola dimensione identitaria, e della ricerca, dentro e fuori di sé, di altri ii. Bateson ci parla di una mente come aggregato di parti interagenti che non sono altro che frammenti della nostra identità, altre nostre identità. D'altronde l'identità si definisce sempre in rapporto a qualcosa di altro rispetto al s'é, nella modernità al dominio istituzionale di stato e capitale. Oggi di fronte alla de-istituzionalizzazione (che in realtà altro non è che un proliferare di istituzioni mutanti), è evidente che l'identità singola non basta più, è per un certo verso un retaggio del passato, un freno al libero dispiegarsi delle soggettività.

Ricordo una lunga discussione con il Rev.William Cooper nel 1977 a Londra. Alla fine di un concerto degli X-Ray-Spex mi disse: "Nel SadoMaso riesci a scinderti in due, proprio quando sei tutt'uno con l'altro". Ho sempre rimproverato a Willy di essere un dualista dialettico, ma quella frase aveva colto nel segno. Nel SM etico antagonista, ciò che appare in tutta la sua evidenza è l'insufficienza della propria unità identitaria. Riesci ad essere Master e Servant contemporaneamente, è una sorta di illuminazione sotto alcuni punti di vista, non più uno, ma due... ed è solo il primo passo. Ho poi incontrato Willy molte altre volte su svariati IRC Internet, l'ho visto con alias di donna, di trans, di bambola gonfiabile... Credo che ormai anche lui converrebbe con me quando dico che la convenzione del nome proprio è una sciagura, e che la telematica è qui a dimostrarlo. In telematica si danno infinite possibilità di giocare con la propria identità, si può cambiare il proprio nome e costituirsi un nuovo personaggio, una nuova identità. Alcuni retrogradi reazionari, sono convinti che tutto ciò sia semplicemente immorale, che fingersi qualcun altro sia un atto da vigliacchi. Sbagliano, e di grosso.
C'é un limite storico di fondo nell'Identità Unica Imposta (IUI), quello di considerare come immutabile l'articolazione identitaria dell'io. più che di identità sarebbe opportuno parlare di costellazioni identitarie, una sorta di sistema satellitare dei corpi, che di fronte alla massiccia invasione mediatica si danno la possibilità di assumere differenti ruoli. Se nel passato era ancora possibile l'IUI, ciò era dovuto al fatto che esisteva ancora uno spazio unico di comunicazione, la comunicazione era prevalentemente vis-à-vis, quella mediata era ancorata ad un supporto, la carta, terribilmente fisico, corporeo quasi. Sulla carta delle lettere si poteva sentire il profumo di sudore delle mani dello scrivente. Due sono gli eventi che hanno oggi reso definitivamente obsoleta questa realtà: la digitalizzazione della comunicazione (e quindi la sua deriva simulacrale) e la pervasione (siamo immersi in migliaia di flussi comunicativi che non possiamo più controllare). Sono gli attori della comunicazione a definirne lo spazio. In quanto fonte di informazione io posso modificare sempre e continuamente lo spazio che mi circonda. Si aprono possibilità nuove di comunicazione. Agendo sull'ambiente posso indurre il mio interlocutore (e me stesso) in stati di coscienza condivisi da entrambi. Ma ciò non è possibile se lui/lei scopre informazioni che io giudico controproducente comunicargli in quel frangente: la mia storia, la mia identità, il mio nome proprio. Già, anche il mio nome proprio costruisce il nostro spazio di comunicazione: l'arredamento di un chat, oltre che dal nome della stanza, è costituito dagli alias degli interlocutori; così l'ambiente di una conference su qualsiasi BBS di provincia, assume il profumo degli alias che vi partecipano. Lascio a voi di sbizzarrirvi sulle potenzialità della realtà virtuale... Quello che vi sto dicendo è che se non decidiamo consapevolmente di rinunciare al nome proprio, ci precludiamo una parte consistente della nostra possibilità di comunicare. Rischiamo di subire, di essere comunicati da altri, che hanno ambiti di informazione, (cioè di messa in forma dello spazio psichico) ben più ampi dei nostri.

Lo sviluppo dell'archiviazione elettronica ha fatto emergere due atteggiamenti distinti rispetto alla possibilità di interconnettere i diversi archivi. Da una parte c'é chi sostiene (governi, polizia) la necessità di poter incrociare i database con le informazioni provenienti da diversi ambiti (sanitarie, giudiziarie, economiche, sui consumi, sulle preferenze politiche, religiose, sessuali) al fine di prevenire la criminalità assumendo maggior controllo sulle persone. Era questo il sistema sudafricano dell'apartheid, dove grazie ai potenti mezzi forniti dall'IBM fin dal 1955, il governo era in grado di controllare tutti gli spostamenti di occupazione e residenza dei cittadini di colore. Dall'altra parte si schierano invece quanti pensano che se ho dato certe informazioni al medico della USL è evidente che non pensavo che ne sarebbero venuti a conoscenza il commissario Basettoni, il cardinal Ruini, il mio datore di lavoro e mio marito.
Così ricordo il mio impegno del 1987 contro l'introduzione in Germania Occidentale di carte d'identità leggibili al computer, che permettevano così di integrare dati provenienti da più parti in base ad un codice di riconoscimento. In Australia, negli anni '70, un milione di persone scesero in piazza contro l'introduzione della carta d'identità. In Svezia dal 1972 è stato istituito il Data Inspection Board a sostegno dei provvedimenti stabiliti dal Data Act, col duplice obbiettivo di tutelare l'integrità dei dati posseduti e di impedire inoltre la sintesi di dati provenienti da differenti fonti. Ma cosa significa tutto ciò? Significa riconoscere che accumulare dati differenti su un'unica persona è una pratica che viola la privacy, e che si ha diritto ad essere differenti rispetto ad istituzioni diverse. In verità vi dico che se accettate questo principio, é evidente che non potete tollerare ancora per molto l'imposizione del nome proprio, unico e ultimo retaggio di una concezione poliziesca e statalista di invasione della sfera privata, che mira a riconoscervi (a pedinarvi) ovunque-chiunque-comunque voi siate. Puntarvi il dito e dire TU, tu sei nome e cognome, so tutto di te.

L'uso dei pronomi è molto interessante da questo punto di vista. Nelle lingue latine, ma anche nel tedesco (o nell'inglese arcaico), esistono due (o più) pronomi con cui rivolgersi all'altro, che testimoniano differenti livelli di distanza sociale. Nella modernità i signori si scambiavano del voi (o del lei), per periodi piuttosto lunghi prima di arrivare a darsi del tu, giunti ad un notevole livello di intimità. Così le mogli davano del voi al marito anche in camera da letto. La barbarie più grande (che peraltro talvolta ancora sopravvive) è data dall'uso non reciproco del pronome: si dà del tu, ma si pretende del lei... Una serie di battaglie culturali, il cui momento massimo è coinciso col '68 francese ed italiano, ha provocato un progressivo spostarsi del pronome distanziante in ambiti sempre più marginali dell'aristocrazia borghese, o nella barbarie del lavoro salariato. Ma la rivolta pronominale del '68 non è sufficiente: non basta poter dare del tu a chiunque, dobbiamo rivendicare la possibilità di dare dell'io a qualcun altro. Tutte le volte che è necessario, tutte le volte che ci sentiamo un altro, che ci troviamo di fronte ad una distanza che non ci appartiene, che condividiamo un libro, un film, un fumetto, dobbiamo poter dire: "L'ho fatto io! È mio!". Si tratta di una battaglia consapevolmente avvinghiata a quella contro il Copyright. È infatti ormai evidente che tutta la produzione testuale (in senso lato, semiologico) non è altro, né può essere altro, che frutto di incroci intertestuali, di sintesi fra differenti prodotti culturali, di operazioni semiurgiche; e che non possiamo più pretendere di dirci "autori"di nulla, proprio perché siamo autori di tutto. Badate, non sto parlando di quella ignobile barbarie estetica che qualcuno si ostina ancora a chiamare col nome di Arte, sto parlando dei processi materiali di produzione di ricchezza, che passano ormai per i processi di concatenazione simbolica, e che slegati da qualsiasi logica di valorizzazione classica, mi fanno chiedere per me medesimo (quindi per tutti) un reddito di sussistenza e di lusso.

Insomma tutta questa merda è resa possibile da uno strumento base di identificazione: il nome proprio. Concetto già semanticamente menzognero, in quanto ci racconta della proprietà da parte nostra di qualcosa (il nome, appunto) di cui in realtà non possiamo disfarci (come di qualunque altra proprietà). In realtà il nome proprio è proprio di qualcun'altro! È proprio del sistema di dominio, che ce lo impone per imporci un'identità. Si dovrebbe parlare quindi più correttamente di nome espropriato. Le ricadute reali sono quelle di non poter essere altri che se stessi (se stessi chi? Quelli con quel nome e cognome, ovviamente) quando in realtà diventa sempre più necessario spalancare le proprie identità per metterle in comunicazione tra di loro: è il sistema mediale che ce lo impone, pena rimanere fuori dal mondo. Va rivendicata con forza la possibilità dell'uso di un nome improprio, un nome di cui appropriarsi occasionalmente con una finalità specifica (come un'arma impropria appunto). Considerare la possibilità di un nome che, come le nostre identità, ci sia esterno, oggetto fluido di proprietà di alcuno, solo di chi lo vuole, anche solo per un istante, anche solo per una vita. Come dice il Rev.Korda della Chiesa dell'Eutanasia: Save The Planet - Kill YourSelf! Uccidi il tuo sé, perché il sé è la prima rivendicazione di proprietà su te stesso!

 

 

...Tra quattro e cinque...

 

"Trecento di voi restino qui a difendere la Prefettura. Gli altri escano e si sparpaglino per la città. Dobbiamo essere ovunque..."

Comandante della Resistenza Francese all'occupazione della Prefettura di Parigi.

 

Una carta d'identità che brucia, dicevamo...

Tutti sanno che Hitler non sopportava gli ebrei. E nemmeno gli zingari. Prima di riservare lo stesso trattamento a comunisti e omosessuali mandò nei campi i "Giudei"e i Rom. Non si trattava di una paranoia personale: il razzismo di Hitler attingeva direttamente a quel sentimento di un legame di sangue con la terra tipico della più antica cultura folklorica tedesca - e per altro già rispolverato in versione letteraria dai romantici prima di lui. La figura che più di ogni altra si era attirata addosso l'antipatia popolare nel Medioevo e che si era sedimentata nell'immaginario collettivo era quella dell'ebreo errante: colui che non ha una terra propria, il vagabondo, lo zingaro.
Certo a rendere indesiderati gli ebrei si era sempre aggiunto il fardello non indifferente del deicidio; ma Hitler aveva idee tutte sue sulla religione e le crociate che gli interessavano erano quelle in nome della razza e della potenza germanica, piuttosto che della punizione divina per la vecchia faccenda del Calvario. Chi non ha un land, chi rifiuta di radicarsi e legarsi anima e corpo a una terra sua, è un parassita, uno spostato, un usurpatore che importa nella terra d'altri la sua cultura usuraia e corrotta.
Non occorse molto al Führer per innestare questo odio atavico sul nazionalismo - sconosciuto nel Medioevo - cioè sull'ideologia più funzionale a una moderna potenza imperialista. L'idea ben nota era quella di un colossale complotto giudaico, esteso a tutte le potenze ai danni della Germania e di tutti i veri tedeschi. Due più due quattro: per salvare la Germania e il mondo intero occorreva cancellare gli ebrei dalla faccia della terra.
Non c'é che dire: Hitler sapeva fare il suo mestiere. Inventò dal nulla i concetti di razza ariana e di razza ebraica e giocò su questa antitesi. Giocò sulla rappresentazione. L'Identità, sotto forma di razza, volk, tradizione, è connessa a un certo rapporto col Territorio.
Per tornare alla nostra sequenza, insieme alla carta d'identità non vanno in cenere soltanto Cognome, Nome, Stato civile, Professione, eccetera. Ma soprattutto nato il, a, Cittadinanza, Residenza, Via.
Il significato è evidente. Nessuno riuscirà mai a metterci in mano un fucile e dirci che dobbiamo sparare ai musulmani perché cinque secoli fa un turco baffuto violentò la nostra trisavola. Molto probabilmente quella trisavola rimase incinta e mise al mondo un bambino: il nostro bisavolo. I Custodi del Sangue e della Terra non potranno farci difendere i Confini Patrii dal nuovo arrivato: perché i confini non sono nostri e noi non apparteniamo ai confini.
Siamo noi il nuovo arrivato. La storia non è mai stata altro che la storia di meticciati e spostamenti di popoli interi...
Per fortuna esistono altri modi di rapportarsi al territorio (gli Aborigeni australiani ne sanno qualcosa) e una pratica estremamente salutare che ci impedirà sempre e comunque di rimanere vincolati da esso: la psicogeografia.
Psyché: anima, ghè': terra, graphia: segno, descrizione. Lo psicogeografo è il nomade consapevole che attraversa il territorio e lo vive, recependo ogni sensazione che esso gli rimanda e tracciando mappe trasversali che non potranno mai essere strumenti di dominio, di occupazione e tantomeno quindi di identità. Chiunque assume questo modo di vivere le cose - come lo scaltro giocatore di D&D - non reagirà all'espropriazione dello spazio cercando di ritagliarsi un'oasi tutta sua in cui attendere l'estinzione. Questo è quello che consentirebbe ancora ai gerarchi di turno di giocare con la rappresentazione: di circoscriverlo, di individuarlo sulla mappa appunto e infine di schiacciarlo. La scommessa è proprio quella di chi vuole evitare di subire lo spazio passivamente senza per questo identificarsi con esso. Di chi vuole navigarci dentro liberamente insomma, interagendo il più possibile con ogni suo punto.
Non si tratta mai di chiudere il cerchio di un confine, ma sempre di tracciare una rotta. Pare che Scotty abbia orientato i campi di curvatura. L'Enterprise è pronta per partire. Come direbbe il mio amico James Tiberius Kirk: "Ci porti fuori signor Sulu. Curvatura 10, rotta sul pianeta Tlon."

 

 

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